| Per caso, mi è capitato di rileggere il testo della “Canzone dell’Appartenenza” di Giorgio Gaber. In particolare, mi sono soffermata su questi versi:
L'appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme non è il conforto di un normale voler bene l'appartenenza è avere gli altri dentro di sé.
L'appartenenza non è un insieme casuale di persone non è il consenso a un'apparente aggregazione l'appartenenza è avere gli altri dentro di sé.
Mentre gli occhi scorrevano sulle parole, nella mente balenava il ricordo di lunghe chiacchierate notturne, in compagnia di un caro amico "di chat", che sosteneva la necessità di appartenersi, nel momento in cui ci si riconosce coprotagonisti di un’amicizia, di un amore, di un qualunque legame affettivo, opponendosi con questa sua tesi alle mie obiezioni, che nascevano dall’errata identificazione del concetto di appartenenza con quello di possesso. Dopo tanti ragionamenti, a volte anche molto conflittuali, sono finalmente riuscita a capire la fondatezza di quelle affermazioni.
Il possesso comporta una subordinazione nel rapporto, implicando un ruolo di prevaricazione, di dominio; l’appartenenza, invece, non è che una spontanea manifestazione del vero amore, poiché «avere gli altri dentro di sé» significa che, a prescindere dalla vicinanza fisica, è necessario appartenersi nell’essenza, nella profondità dell’anima, come pensiero fra i pensieri, come una parte di vita nella vita, condividendo gioie assolute, ma anche inquietudine e sofferenza.
Le parole di Gaber, riferite soprattutto ad un contesto sociale, mi sembrano adatte anche per una spiegazione più individuale di questa profonda, straordinaria e soprattutto reale esperienza, spesso sconosciuta a chi vive convinto che la presenza autentica ed il sentimento sincero dipendano esclusivamente dall’aggregazione e dall’incontro.
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